Sulla sussistenza della “autonoma organizzazione” onere della prova diviso tra Fisco e contribuente
Secondo un costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, nel caso di impugnazione del rifiuto (espresso o tacito) della restituzione dell’Irap versata, è il contribuente che ha l’onere di provare l’assenza degli elementi costitutivi del requisito dell’autonoma organizzazione (Cass. nn. 3676/2007, 9325/2017 e 4576/2019); nel caso invece di impugnazione della cartella di pagamento e del ruolo relativo all’Irap non versata, incombe sull’Amministrazione finanziaria l’onere di dimostrare il corretto esercizio del potere e, quindi, l’esistenza dei medesimi elementi (Cass. 24 novembre 2016, n. 23999).
Tali principi sono stati ora ribaditi dalla quinta sezione tributaria della Corte di Cassazione con l’ordinanza 24 ottobre 2019, n. 4424, depositata lo scorso 20 febbraio. Al riguardo, si ricorda che per la Suprema Corte, in materia di Irap, il presupposto impositivo dell’autonoma organizzazione ricorre quando il contribuente:
- sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia quindi inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse;
- impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui che superi la soglia dell’impiego di un collaboratore che esplichi mansioni meramente esecutive (Cass. nn. 9451/2016 e 9786/2018).
Di conseguenza, al fine di assoggettare ad Irap il contribuente, l’Ufficio non può ritenere sufficiente come requisito la presenza di lavoratori dipendenti, senza precisarne le mansioni. Peraltro, la Cassazione ha affermato anche che qualora il contribuente effettui le proprie prestazioni in strutture organizzative altrui, anche di un familiare, il presupposto dell’autonoma organizzazione ricorre anche laddove “il professionista responsabile dell’organizzazione si avvalga, pur senza un formale rapporto di associazione, della collaborazione di un altro professionista (nella specie, del coniuge), stante il presumibile intento di giovarsi delle reciproche competenze, ovvero della sostituibilità nell’espletamento di alcune incombenze, si da potersi ritenere che il reddito prodotto non sia frutto esclusivamente della professionalità di ciascun componente dello studio” (Cass. 18 gennaio 2017, n. 1136, e 15 febbraio 2018, n. 3792).