Sui confini della concorrenza illecita con minaccia permane il contrasto giurisprudenziale
La terza sezione penale ha rimesso alle Sezioni Unite la questione se, ai fini della configurabilità del reato di illecita concorrenza con minaccia o violenza (di cui all’art. 513-bis del codice penale), sia necessario il compimento di condotte illecite tipicamente concorrenziali o, invece, sia sufficiente il compimento di atti di violenza o minaccia in relazione ai quali la limitazione della concorrenza sia solo “la mira teleologica dell’agente”.
Con la decisione 19 aprile 2019, n. 49343, depositata lo scorso 28 novembre, infatti, i giudici di legittimità hanno rilevato sull’argomento un contrasto giurisprudenziale. In particolare:
- secondo un primo indirizzo, l’elemento oggettivo del reato in esame consiste nella repressione delle sole condotte illecite tipicamente concorrenziali e competitive (quali il boicottaggio, lo storno dei dipendenti, il rifiuto di contrattare, ecc.) realizzati con atti di violenza o minaccia che inibiscono la normale dinamica imprenditoriale;
- secondo un diverso indirizzo, invece, tale reato è configurabile ogni qualvolta sia realizzato un comportamento che, attraverso l’uso strumentale della violenza o della minaccia, sia idoneo ad impedire al concorrrente di autodeterminarsi dell’esercizio della sua attività commerciale, industriale o comunque produttiva.
Di conseguenza, seguendo questa tesi sarebbero da qualificare atti di concorrenza illecita tutti quei comportamenti sia “attivi” che “impeditivi” dell’altrui concorrenza, che, commessi da un imprenditore con violenza o minaccia, sono idonei a falsare il mercato e a consentirgli di acquisire, a danno dell’imprenditore minacciato, illegittime posizioni di vantaggio sul libero mercato, senza alcun merito derivante dalla propria capacità operativa (in tal senso si richiamano le pronunce della Suprema Corte 2 maggio 2016, n. 18122, e 29 gennaio 2016, n. 3868).