Se il reddito si discosta dai parametri via libera all’accertamento analitico-induttivo
L’ufficio che procede ad accertamento analitico-induttivo (ai sensi dell’art. 39, comma 1, lettera d), del D.P.R. n. 600/1973) avvalendosi – ai sensi dell’art 3, comma 181, della Legge 28 dicembre 1995, n. 549 (Finanziaria 1996) – dei parametri per la determinazione presuntiva dei ricavi, dei compensi e del volume d’affari previsti dal successivo comma 184, e poi specificati dai D.P.C.M. 29 gennaio 1996 e 27 marzo 1997, “non deve apportare alcun elemento atto a confortare il proprio diverso accertamento, perché quelli considerati nell’elaborazione dei parametri stessi e l’applicazione di questi ai dati esposti dal singolo contribuente hanno già i caratteri della presunzione legale, (…) restando comunque consentito al contribuente di provare anche con presunzioni, la cui valutazione è rimessa al prudente apprezzamento lei giudice, l’inapplicabilità dei parametri alla sua posizione reddituale” (Cass. 26 aprile 2017, n. 10242, 11 febbraio 2009, n. 3288).
Presso la giurisprudenza di legittimità si è affermata anche la tesi secondo cui i parametri in esame, “rappresentando la risultante dell’estrapolazione statistica di una pluralità di dati settoriali acquisiti su campioni di contribuenti e dalle relative dichiarazioni, rilevano valori che, quando eccedono il dichiarato, integrano il presupposto per il legittimo esercizio da parte dell’Ufficio dell’accertamento analitico-induttivo, ex art. 39, comma 1, lett. d, del d.P.R. n. 600 del 1973, che deve essere necessariamente svolto in contraddittorio con il contribuente, sul quale, nella fase amministrativa e, soprattutto, contenziosa, incombe l’onere di allegare e provare, senza limitazioni di mezzi e di contenuto, la sussistenza di circostanze di fatto tali da allontanare la sua attività dal modello normale al quale i parametri fanno riferimento, sì da giustificare un reddito inferiore a quello che sarebbe stato normale secondo la procedura di accertamento tributario standardizzato, mentre all’ente impositore fa carico la dimostrazione dell’applicabilità dello ‘standard’ prescelto al caso concreto oggetto di accertamento” (Cass. 13 luglio 2016, n. 14288).
Tale principio è stato ribadito dalla quinta sezione tributaria della Corte di Cassazione con l’ordinanza 29 settembre 2018, n. 21295, depositata lo scorso 29 agosto.