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Reati colposi e nozione di vantaggio dell’ente ex D.Lgs. 231/2001

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Con la sentenza n. 24697/2016, la Corte di Cassazione ha affrontato il caso di un infortunio sul lavoro a seguito del quale, il datore di lavoro, il dirigente responsabile e il lavorate dipendente addetto presso l’azienda ove era avvenuto il sinistro sono stati chiamati a rispondere di fronte al Tribunale di Trento del reato di lesioni colpose derivanti, a loro volta, dalla violazione della normativa in materia di prevenzione sugli infortuni sul luogo di lavoro.

Dalle suddette contestazioni è derivata l’attribuzione in capo alla società della responsabilità amministrativa ex articolo 25-septies del D.Lgs. 231/2001, ciò in quanto, secondo l’impianto accusatorio, il reato commesso, seppure avente natura colposa, avrebbe comunque generato un vantaggio nei confronti dell’ente. Con specifico riferimento alla posizione della società, i giudici del merito (di primo e di secondo grado) hanno affermato la responsabilità amministrativa della persona giuridica, pertanto i legali responsabili dell’ente hanno deciso di impugnare la decisione sfavorevole innanzi alla Corte di Cassazione eccependone il vizio di motivazione e la violazione di legge per carenza del requisito dell’interesse o del vantaggio conseguito dall’ente in conseguenza del delitto.

La società ricorrente, in particolare, ha preliminarmente dato evidenza della carenza di coordinamento della normativa in materia in seguito all’entrata in vigore del D.Lgs. 123/2007 che ha esteso la disciplina della responsabilità amministrativa dell’ente anche alle ipotesi di omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro. Con l’ingresso di tali fattispecie criminose nel novero dei reati presupposto alla responsabilità dell’ente, è sorto il problema relativo alla compatibilità tra le condotte colpose e i requisiti d’imputazione contenuti nell’articolo 5 D.Lgs. 231/2001 il quale espressamente prevede che “l’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio”.

A dire della società, sorge l’esigenza di una lettura della norma che sia “costituzionalmente orientata” in conformità dei principi espressi nella sentenza n. 218/2014 emessa dalla Corte Costituzionale. In tale pronuncia la Suprema Corte ha statuito che l’illecito ascrivibile all’ente deve qualificarsi come fattispecie complessa, che non può essere conseguenza automatica della commissione del reato presupposto che, invero, costituisce soltanto uno degli elementi che formano l’illecito da cui deriva la responsabilità amministrativa dell’ente. In altri termini, perché l’ente sia chiamato a rispondere non è sufficiente la mera connessione tra la fattispecie criminosa e lo svolgimento della sua attività, essendo invece necessario fornire la prova che i responsabili o i lavoratori dell’ente abbiano commesso il reato nello specifico interesse o a un vantaggio della persona giuridica.

Attraverso la decisione in commento, la Corte di Cassazione ha quindi colto l’occasione per fare chiarezza sui concetti di interesse e vantaggio (nonché in merito alla loro concretizzazione nel caso di specie) richiamando i principi espressi dalle Sezioni Unite nella recente sentenza n. 38343 del 20 aprile 2014 in cui, com’è noto, è stato affrontato il tema relativo alla natura del sistema sanzionatorio introdotto dal D.Lgs. 231/2001.

Chiosano i giudici che “i concetti di interesse o vantaggio, nei reati colposi d’evento, vanno riferiti alla condotta e non all’esito antigiuridico”. Nel caso di specie, pertanto, secondo la Cassazione, le scelte operate dalla società – finalizzate a privilegiare le esigenze di profitto rispetto alla messa in sicurezza dei luoghi di lavoro – hanno determinato la sussistenza di responsabilità amministrativa in capo all’ente che, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ottiene uno specifico vantaggio. Tale beneficio può essere individuato nel risparmio di spesa derivante dalla mancata messa in sicurezza o, in alternativa, come incremento economico ottenuto dalla “prosecuzione dell’attività nonostante la situazione di rischio derivante dagli ampi varchi nel piano di calpestio, e la messa in atto, a costo zero, di procedure adottate in netto contrasto con le disposizioni in tema di sicurezza”.

Alla luce di tali circostanze, la corte di legittimità ha dunque ritenuto infondate le censure sollevate dall’ente e ha confermato la sentenza gravata sottolineando che in siffatta ipotesi “andava ravvisata la ricorrenza di un vantaggio economico indiretto, derivante dal risparmio conseguente alla posposizione delle esigenze della sicurezza del lavoro a quelle della produzione”.

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