Per il commercialista nello studio associato la “autonoma organizzazione” è presunta
In materia di Irap, ai fini della verifica della sussistenza del requisito della “autonoma organizzazione”, la Corte di Cassazione ha più volte affermato che il professionista, qualora sia inserito in un’associazione professionale, sebbene eserciti anche una distinta e separata attività, diversa da quella svolta in forma associata, al fine di sottrarsi all’applicazione del tributo è tenuto a dimostrare di non fruire dei benefici organizzativi recati dall’adesione alla detta associazione (in tal senso si richiama l’ordinanza 24 novembre 2016, n. 24088).
Tale interpretazione è stata confermata da una recente pronuncia con la quale i giudici di legittimità hanno sottolineato come in tema di Irap il professionista (nella specie, commercialista) il quale sia inserito in uno studio associato, sebbene svolga anche una distinta e separata attività professionale, diversa da quella espletata in forma associata, abbia l’onere di dimostrare, al fine di sottrarsi all’applicazione dell’imposta, la mancanza di autonoma organizzazione, ossia di non fruire dei benefici organizzativi recati dalla sua adesione alla detta associazione che, proprio in ragione della sua forma collettiva, normalmente fa conseguire agli aderenti vantaggi organizzativi e incrementativi della ricchezza prodotta quali, ad esempio, le sostituzioni in attività – materiali e professionali – da parte di colleghi di studio, l’utilizzazione di una segreteria o di locali di lavoro comuni, la possibilità di conferenze e colloqui professionali o altre attività allargate, l’utilizzazione di servizi collettivi e quant’altro caratterizzi l’attività svolta in associazione professionale (Sez. V, ordinanza 15 gennaio 2019, n. 766 ).
A considerazioni analoghe è approdata ora la quinta sezione della Suprema Corte con l’ordinanza 28 marzo 2019, n. 13158 , depositata lo scorso 16 maggio.