L’insegna di un esercizio commerciale, laddove abbia le caratteristiche richieste dall’art. 23 del Codice della Strada, non muta la sua natura in insegna pubblicitaria per il solo fatto che essa si aggiunga ad altra già presente presso il medesimo insediamento: a tal fine, infatti, occorre che l’insegna contenga un messaggio che stimoli la potenziale clientela all’acquisto del prodotto o del servizio offerti. Soltanto in presenza di tali presupposti l’insegna sarà assoggettata ad imposta sulla pubblicità: lo ha precisato la seconda sezione del Consiglio di Stato con la sentenza 28 aprile 2020, n. 2780, depositata lo scorso 30 aprile. In altre parole: la natura pubblicitaria dell’insegna non può essere desunta dalla mera presenza di più insegne presso il medesimo esercizio.
Si ricorda che, per la giurisprudenza di legittimità, in materia di imposta comunale sulla pubblicità, l’art. 17, comma 1-bis, del D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507 (aggiunto dall’art. 10 della Legge 28 dicembre 2001, n. 448 – Finanziaria 2002), che esenta dall’imposta le insegne di attività commerciali e di produzione di beni o servizi nei limiti di una superficie complessiva fino a 5 metri quadrati, “non consente di introdurre distinzioni in relazione al concorso dello scopo pubblicitario con la funzione propria dell’insegna stessa, purché la stessa, oltre ad essere installata nella sede dell’attività a cui si riferisce o nelle pertinenze accessorie, e ad avere la funzione di indicare al pubblico il luogo di svolgimento dell’attività, si mantenga nel predetto limite dimensionale” (Cass. 4 marzo 2013, n. 5337). Per i giudici di legittimità, inoltre, tale conclusione sembra essere confermata anche dall’art. 2 del D.M. 4 aprile 2003, che – ai sensi dell’art. 10, comma 3, della richiamata Legge 448/2001 – ha dettato le modalità operative per la determinazione dei trasferimenti compensativi ai Comuni a copertura delle minori entrate relative all’imposta sulla pubblicità derivanti dalla esenzione stabilita dal citato art. 17, comma 1-bis.