Interdittiva antimafia, non basta il rapporto di parentela con appartenenti alla criminalità organizzata
Ai fini dell’interdittiva antimafia, secondo un costante orientamento giurisprudenziale il mero rapporto di parentela con soggetti risultati appartenenti alla criminalità organizzata non è di per sé idoneo, in assenza di ulteriori elementi, a dare conto del tentativo di infiltrazione, in quanto non può in alcun modo instaurarsi un vero e proprio automatismo tra un legame familiare, sia pure tra stretti congiunti, e il condizionamento dell’impresa, che deponga nel senso di un’attività sintomaticamente connessa a logiche e ad interessi malavitosi: lo ha affermato la prima sezione del Tar Piemonte con la sentenza 8 luglio 2020, n. 480 , depositata lo scorso 22 luglio.
Altri elementi, quali la sussistenza di forti co-interessenze economiche, invece, qualificano e delineano una immanente situazione di condizionamento, che travalica di gran lunga il mero rapporto di parentela.
I giudici amministrativi hanno inoltre sottolineato che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, nella parte in cui non stabilisce quali siano le modalità per superare l’interdittiva antimafia, imponendo all’impresa che ne sia destinataria l’onere di impugnarla nei termini avanti il giudice amministrativo prima di poter rivolgere al giudice ordinario la richiesta di controllo giudiziario ex art. 34-bis, comma 6, del medesimo D.Lgs. n. 159/2011 e senza specificare la necessità di procedere secondo un approccio prospettico-recuperativo.
La pronuncia in commento appare discostarsi da quanto affermato dal Consiglio di Stato con la sentenza 24 aprile 2020, n. 2651: nell’occasione, i giudici di Palazzo Spada precisarono infatti che i rapporti di interdittiva antimafia possono essere fondati anche sui soli rapporti di parentela, laddove assumano una intensità tale da far ritenere una conduzione familiare e una “regia collettiva” dell’impresa, nel quadro di usuali metodi mafiosi fondati sulla regia “clanica”.
A tal fine fu richiamata la sentenza della Corte Costituzionale 26 marzo 2020, n. 57/2020 , nella quale si affermò che l’informazione antimafia interdittiva, adottata dal Prefetto nei confronti dell’attività privata delle imprese oggetto di tentativi di infiltrazione mafiosa, non viola il principio costituzionale della libertà di iniziativa economica privata perché, pur comportandone un grave sacrificio (come ad esempio l’iscrizione all’albo delle imprese artigiane), è giustificata dall’estrema pericolosità del fenomeno mafioso e dal rischio di una lesione della concorrenza e della stessa dignità e libertà umana.