Gli elementi del reato di inquinamento ambientale
Con la sentenza n. 46170/2016, la terza sezione penale della Cassazione si è pronunciata per la prima volta in riferimento al reato di inquinamento ambientale (introdotto dalla L. 68/2015) statuendo come, ai fini della configurabilità del delitto previsto dall’articolo 452-bis c.p., sia necessario considerare la sussistenza di quelle condizioni di “squilibrio funzionale o strutturale” che caratterizzano la condotta penalmente rilevante, non rilevando invece l’eventuale reversibilità del fenomeno inquinante, se non come uno degli elementi di distinzione tra il delitto in esame e quello di disastro ambientale.
Ebbene, nel caso di specie, il Gip del Tribunale di La Spezia aveva disposto il sequestro preventivo nei confronti di un progettista e direttori lavori di dragaggio del fondale di due moli di un porto, indagato per il reato di inquinamento ambientale di cui all’articolo 452-bis c.p., perché, non avendo rispettato le norme progettuali del caso, aveva causato la dispersione di sedimenti nelle acque circostanti e il trasporto degli inquinanti in essi contenuti (idrocarburi e metalli pesanti). Da ciò, ne era conseguito un deterioramento e una compromissione significativa delle acque del golfo limitrofo.
Accolta la richiesta di riesame da parte del Tribunale delle Libertà, la questione era giunta in Cassazione su ricorso del Procuratore della Repubblica che, con un unico motivo, aveva dedotto la violazione dell’articolo 321 c.p.p. in relazione all’articolo 452-bis c.p., osservando come i giudici del riesame, sconfinando in un giudizio di merito, avessero travalicato l’ambito della cognizione loro attribuita dalla legge ed avessero errato ad interpretare la norma anzidetta.
Una volta appurato come il Tribunale non avesse, in realtà, oltrepassato alcun limite, essendosi, il medesimo, limitato a rilevare, sulla base dei dati disponibili e sotto il profilo del fumus del reato, l’assenza di una compromissione o di un deterioramento consistente e quantificabile, la Suprema Corte ha quindi proceduto a verificare se l’interpretazione dell’articolo 452-bis c.p. offerta dai giudici del riesame fosse corretta o meno.
Come noto, la predetta norma, introdotta dalla L. 68/2015, punisce colui che “abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili” delle acque, dell’aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo, etc..
È chiaro che la congiunzione disgiuntiva “o” svolge una funzione di collegamento tra i due termini che indicano fenomeni autonomi ma equivalenti negli effetti, in quanto si risolvono entrambi in un’alterazione, ossia in una modifica dell’originaria consistenza della matrice ambientale o dell’ecosistema.
L’unica differenza tra le due espressioni è data dal fatto che la compromissione rappresenta una “condizione di rischio o pericolo che potrebbe definirsi di “squilibrio funzionale”, perché incidente sui normali processi naturali correlati alla specificità della matrice ambientale o dell’ecosistema”, mentre il deterioramento rappresenta “uno “squilibrio strutturale“, caratterizzato da un decadimento di stato o di qualità di questi ultimi”.
Ciò chiarito, la Cassazione ha argomentato come, ai fini della configurabilità del reato in parola, non assumesse rilievo “l’eventuale reversibilità del fenomeno inquinante”, se non come uno degli elementi di distinzione tra il delitto in esame e quello, più severamente punito, del disastro ambientale di cui all’articolo 452-quater c.p..
Inoltre, la norma prevede che la compromissione o il deterioramento devono essere comunque “significativi” e “misurabili”, venendo così elevato in modo considerevole il livello di lesività della condotta, con esclusione dei fatti di minor rilievo.
Sul punto, la Suprema Corte ha evidenziato come, nel caso di specie, il Tribunale avesse qualificato i richiamati requisiti della compromissione o del deterioramento come condizione di “tendenziale irrimediabilità”, caratterizzata da “situazioni di strutturali e non provvisorie inabilità del bene rispetto alle sue funzioni“, conclusioni che, però, non hanno convinto la Cassazione perché sembravano riferirsi ad una condizione (quella di “tendenziale irrimediabilità”, appunto) che la norma non prevede.
In altre parole, La Cassazione ha ritenuto che i giudici del riesame avessero valutato solo quei “dati fattuali astrattamente riconducibili alla condizione di irrimediabilità tendenziale del danno preventivamente individuata, offrendo argomentazioni certamente accurate, ma basate su un presupposto errato, lasciando in disparte … altri aspetti” quali, ad esempio, “la presenza nei fanghi fuoriusciti dall’area di bonifica, di sostanze tossiche quali i metalli pesanti ed idrocarburi policiclici aromatici (questi ultimi qualificati anche come cancerogeni e mutageni), la cui presenza nelle acque, indipendentemente dagli effetti letali sulla fauna, può determinarne la contaminazione”.
Poiché, a parere della Corte, i dati acquisiti dovevano essere diversamente e globalmente valutati ai fini della qualificazione giuridica dei fatti e della sussistenza del fumus del reato, la terza sezione penale ha annullato l’ordinanza impugnata disponendo il rinvio al Tribunale della Spezia per un nuovo esame alla luce dei principi affermati.