Frodi Iva, cassazione severa sulle presunzioni di consapevolezza dell’acquirente
In materia di Iva, l’Amministrazione finanziaria la quale contesti che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza (o avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta) della sostanziale inesistenza del contraente.
Qualora il Fisco assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di aver adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto; a tal fine non rilevano né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi (in tal senso si richiama la sentenza della Corte di Cassazione 20 aprile 2018, n. 9851).
In applicazione di tali principi, con l’ordinanza 12 marzo 2019, n. 3564, depositata lo scorso 13 febbraio, la quinta sezione tributaria della Suprema Corte ha escluso che possa far presumere detta consapevolezza l’esistenza di assegni che secondo i verificatori rappresentano “garanzie” per la restituzione delle somme fittiziamente indicate a debito nelle fatture ritenute false.