Nelle ipotesi di fatturazione per operazioni inesistenti effetti diversi per Iva e dirette
In materia di imposte sui redditi, l’acquirente dei beni può dedurre i costi relativi ad operazioni soggettivamente inesistenti (non utilizzati direttamente per commettere il reato), anche nel caso in cui sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi che, a norma del Tuir, siano in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità.
Lo ha affermato la quinta sezione tributaria della Corte di Cassazione con l’ordinanza 19 giugno 2018, n. 21308, depositata lo scorso 29 agosto.
I giudici di legittimità, in particolare, sono giunti a tale conclusione sulla base del disposto dell’art. 14, comma-4 bis, della Legge 24 dicembre 1993, n. 537, nella formulazione introdotta con l’art. 8, comma 1, del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, convertito con modifiche dalla Legge 26 aprile 2012, n. 44.
Ne deriva che per effetto di tali modifiche (che operano con efficacia retroattiva in bonam partem), i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti sono deducibili a prescindere dal loro collegamento con una “frode carosello”, per il solo fatto che sono stati sostenuti.
Di conseguenza va ribadito il principio secondo cui devono tenersi distinti gli effetti ai fini dell’Iva e delle imposte dirette: sotto il primo profilo la condotta dolosa o consapevole del cessionario, a cui è parificata l’ignoranza colpevole, impedisce l’insorgenza del diritto alla detrazione, mentre per quanto attiene alla tassazione diretta il costo dell’operazione, se imputato al conto economico, può concorrere alla determinazione della base imponibile nella misura in cui il bene o servizio acquistato venga reimpiegato nell’esercizio dell’attività d’impresa e sempre che non venga utilizzato per il compimento di un delitto non colposo (in tal senso, Cass. n. 13803/2014).